Shariff è arrivato in Italia (ricorda il giorno esatto) il 31 giugno del 2010. Oggi ha trentatré anni ed è figlio di quella generazione che forse ha visto cambiare più di tutti il proprio paese. Shariff, infatti, è afgano.
L’Afghanistan, negli ultimi cinquant’anni, non ha conosciuto pace: fino al 1973 è retto dalla dinastia Barakzai, che trasforma il regno in una democrazia con libere elezioni e diritti civili. Dopo due colpi di Stato però, nel 1978 la Rivoluzione d’Aprile porta alla nascita della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, di stampo filosovietico, dove il neoeletto presidente Nur Mohammad Taraki avvia una serie di riforme volte alla modernizzazione e laicizzazione del Paese, provocando tuttavia il malcontento di larghi strati della popolazione, soprattutto nelle campagne. L’organizzazione di una resistenza islamica armata, l’uccisione di Taraki e l’avvio della guerriglia convincono l’Unione Sovietica ad invadere il paese. Da quel momento in poi, i giochi di potere tra Unione Sovietica e Stati Uniti nel corso della guerra fredda, l’affermarsi di fazioni dell’Islam radicale e la successiva guerra degli Usa al regime dei Taliban negli anni 2000 portano il paese ad una progressiva destabilizzazione, frammentazione sociale e generale impoverimento.
Innanzitutto, Shariff, perché sei andato via dall’Afghanistan?
“Per la polizia. Io facevo parte della polizia, finché i talebani non hanno preso il potere. Quando è successo, la loro polizia è venuta a cercarmi a casa. Hanno detto a mia madre che sarebbero tornati per sapere se avessi intenzione di passare dalla loro parte: se non lo avessi fatto, avrebbero bruciato la mia casa e mi avrebbero ucciso. Che dovevo fare? Sono fuggito.”
Ciò che è disarmante, quando incontri uno Shariff nella tua vita, è la naturalezza con la quale scrolla le spalle, come se quella su di esse non fosse altro che un po’ di sabbia rimasta dal lungo viaggio.
Quando sei arrivato in Italia, Shariff? Come?
(Mentre gli faccio questa domanda, fuma una sigaretta, mi guarda, tira una boccata. Cerca di mettere in ordine le parole da dire, più che i pensieri).
“Da Salonicco. Ci siamo imbarcati a Salonicco, eravamo in quaranta su una nave molto piccola (mima con le braccia la grandezza dell’imbarcazione) ed è stato un viaggio molto lungo”.
Viene spontaneo chiedergli, a questo punto, come sia arrivato da Kabul a Salonicco. Sorride.
“A piedi”, dice. A sentirlo parlare sembra la cosa più normale del mondo. Sorrido di rimando, ma non abbiamo gli angoli della bocca alti allo stesso modo, il nostro sorriderci è diverso. Me ne rendo conto osservando i suoi occhi che ridono assai più di quanto non faccia la bocca.
“Quando siamo arrivati in Italia, abbiamo iniziato a camminare. Non sapevo dove mi trovassi in quel momento, poi ho scoperto di essere vicino a Catanzaro. Mentre camminavamo, un giorno ci ferma la vostra polizia e ci chiede Ma dove state andando? Da lì abbiamo trascorso cinque mesi nel centro di accoglienza vicino Catanzaro, in attesa di un permesso di soggiorno per restare. Poi sono andato in Inghilterra.”
Questa sua affermazione mi stupisce. Gli chiedo perché sia arrivato in Italia e abbia atteso cinque mesi per poi andare via.
“Per lavoro. Qui non c’era lavoro, non trovavo niente. Quando ho avuto i documenti in regola ho deciso di partire, sono andato in Inghilterra per lavorare in un Chicken-Hut (fast food specializzato prettamente nel cucinare la carne di pollo) e lì sono rimasto per quasi due anni. Tuttavia mi piaceva l’Italia, mi ero trovato bene. Perciò quando sono riuscito a mettere dei soldi da parte, ho deciso di tornare qui. Avevo trovato lavoro a Pescara ma in nero. Mi hanno beccato e volevano mandarmi via di nuovo ma avevo i documenti in regola, quindi mi hanno permesso di restare. Ho lavorato a Pescara finché non ho avuto l’occasione di aprire una piccola attività, e ho visto un locale che poteva interessarmi e fare al caso mio. Eh sì, era proprio questo (indica l’insegna Doner Kebab) ad Anagni.”
Mentre parliamo, passano sette-otto persone, di varie età. Lo salutano tutti chiamandolo per nome, lui risponde con un ciao e un cenno del capo. Sento di non avere bisogno di chiedergli se si sia sentito accolto, qui. La domanda, in ogni caso, la pongo lo stesso.
“Anagni è molto bella. Qui la gente è bella. Mi piace. Mi sono trovato bene. Mi dispiace dover andare via, ma torno per un po’ dalla mia famiglia”.
Da quanto non la vedi?
“Dal 2013. Era giugno. In realtà, mio figlio maggiore, quello di sedici anni, è venuto qui un anno fa ad aiutarmi. Ora lavora a Frosinone, sempre da Chicken-Hut. A Kabul però ho mia moglie, altri tre maschi e due femmine. Voglio tornare e restare lì per alcuni mesi, poi penserò a cercare un locale più grande, in affitto, ma non so ancora dove. Non credo resterò ad Anagni: anche se questa città mi ha accolto bene, ho poche possibilità qui al momento per il mio lavoro.”
Come hai trovato Kabul, quando sei tornato?
“Migliore rispetto a quando sono andato via. Più moderna, più bella, mi è sembrato che tante cose fossero migliorate, ora voglio tornare di nuovo per vedere coi miei occhi. L’ultima volta, quando sono tornato, sono venuti ad aspettarmi all’aeroporto. Mio fratello mi ha accompagnato a casa.”
Non aggiunge altro, ma stavolta è Shariff al completo a sorridere, non solo i suoi occhi.
Un uomo i cui affetti lontani restano comunque il primo motore che muove i suoi passi: per arrivare a questo dignitoso, umano, senso di verità, ho dovuto scavare. Come mi ha insegnato l’incontro con lui, spesso per arrivare al vero fulcro di un individuo, bisogna spogliarlo dei soli eventi che hanno caratterizzato la sua vita, cercando di comprendere, più che altro, come sia riuscito ad affrontarli. E a vincerli, qualche volta.
In bocca al lupo, Shariff. A presto.
articolo pubblicato sul mensile diocesano Anagni – Alatri Uno per l’Ufficio Migranti a cura di Giorgio Michelangeli e Silvia Compagno
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