Mentre passeggiamo per strada, mentre continuiamo a condurre la nostra vita, in quel tempo dall’altra parte del marciapiede c’è una donna che, incamminandosi verso casa, trema ad ogni passo che fa poiché è un passo sempre più vicino al momento nel quale subirà il prossimo schiaffo, il prossimo pugno nello stomaco. Mentre stiamo postando una storia su Instagram, dall’altra parte dello schermo c’è una donna che fissa il cellulare cercando il coraggio di chiamare qualcuno che la possa salvare. Mentre facciamo le nostre scelte guidati dalla nostra irrazionalità, c’è una donna che sceglie basandosi sulla ragione guidata dalla paura. Mentre cerchiamo un abito che ci stia bene, magari un vestito attillato, magari una giacca elegante, c’è una donna che sta cercando un giacchetto per coprire i lividi di cui si vergogna. Mentre viviamo nella nostra realtà, delle donne vivono in una parallela e integrata a questa.
Solo perché qualcosa non la si vede, non vuol dire che non ci sia.
Un evento non smette di verificarsi solo perché si pensa che tale fenomeno non accada veramente così spesso e che coinvolga così tanti individui. Ma accade anche che visto che di un fenomeno se ne parli molto spesso e in un determinato modo, esso vada ad incamerarsi nella mente umana come qualcosa di “normale”. Oggi “normale” è sentir parlare di donne che ogni giorno vengono picchiate a sangue da “piccoli uomini” che non sanno cosa voglia dire amare, e che usano la violenza come strumento di potere.
Bisogna prender coscienza che tale evento non è normale bensì è un fatto per il quale serve aprire gli occhi ed occorre sopprimere l’indifferenza verso ciò. Non si ha più la concreta percezione della gravità di tale evento.
Una donna alla quale, ogni giorno, viene tolta la dignità si ritrova sola a dover affrontare il mostro più atroce che lei abbia mai visto. Il mostro che prima parlava d’amore, la faceva sentire protetta, passava la notte con lei, su un letto nel quale ogni notte il mostro dentro l’uomo prendeva sempre più spazio, fino a soppiantarlo. L’uomo, ormai diventato mostro, lascia quella donna accovacciata sul pavimento in un angolo della stanza, mentre piange ed il malessere la soffoca.
Quella donna piange tutte le notti e si chiede infiniti “perché”, sentendosi sconfitta e sola al mondo poiché la realtà che la circonda la sta uccidendo pian piano. Si sente sola perché concretamente non vede una via d’uscita, non vede un’altra realtà dove andare via.
Molto spesso si incitano le donne a denunciare, ma la verità è che non è facile denunciare in una realtà nella quale la donna non si sente realmente tutelata. I supporti morali dati su un post di Instagram nel quale c’è scritto “denuncia” non aiuterà quella donna a far sparire la paura e a tutelarla concretamente.
Dunque non possiamo aspettarci che una donna denunci senza prima chiederci “e poi? Una volta che denuncia cosa succede?”. La falsa positività fa sì che il problema venga visto in maniera più leggera e dunque toglie la concreta gravità e complessità di tale fenomeno.
Un’idea è soltanto un’idea fino a quando essa non si concretizza realmente nella realtà.
Dunque il concetto di denunciare è assolutamente giusto, ma se non si fa sì che questo concetto possa diventare un mezzo di protezione e di risoluzione del problema, allora rimane solo una bella idea. I tempi della Giustizia fanno nascere il bisogno di allontanare queste donne poiché, non essendo tutelate in tempo reale, il pericolo si amplifica e per questo c’è il bisogno di agire subito.
In questo, i centri anti-violenza svolgono un ruolo cruciale; infatti, solo grazie a loro è possibile attuare tale procedura che permette alla donna, che “vorrebbe solo andare via”, di sentirsi protetta. La donna dopo aver denunciato viene portata in una cosiddetta ‘casa protetta’ nella quale si crea una rete. Nel momento in cui queste donne vengono portate nelle case protette, si cerca di creare una rete intorno a loro, attraverso la ricerca di un lavoro, la ripresa degli studi, il frequentare tirocini, per far sì che esse non siano isolate dal mondo esterno. Il tempo trascorso lontano da quella realtà alienante non è un tempo di stallo bensì un tempo in grado di far rinascere queste donne. Rinascere come mamme, come studentesse e come Donne. La vita delle donne non viene messa in pausa, viene invece riscattata. Non è un fuggire via cambiando casa ma è un cambiare dentro.
Questa soluzione è stata fonte di salvezza e di rinascita per Federica, una giovane ragazza vittima di violenza fisica e psicologica da parte del padre. Nei mesi di quarantena la situazione stava diventando sempre più dura ed era ormai impossibile restare nella stessa casa nella quale abitava anche l’uomo che le recava malessere.
La redazione di anagnia.com si è confrontata con la signora Maria Rosaria Ruggeri, responsabile del centro anti-violenza di Frosinone “Mai più ferite”, che ci ha raccontato la storia di Federica, facendoci avere la sua testimonianza.
Federica racconta la sua esperienza dicendo:
“Mi chiamo Federica e sono una delle tante donne che ha scelto di fare riferimento ad un centro anti-violenza per cercare di ricominciare a vivere una vita normale. In tutti questi anni mi sono resa conto che se c’è una cosa che fa veramente paura è l’abitudine e l’accettazione passiva di una condizione di vita che pensiamo di meritare perché quello è il destino che ci è capitato e basta”. Provengo da una famiglia fortemente “patriarcale”. Mio padre rigetta la figura della donna così come democraticamente viene intesa, una figura al pari dell’uomo. Ebbene sì, purtroppo la discriminazione di genere è ancora molto diffusa e se penso anche a quello che, purtroppo, mio padre ha vissuto nella sua infanzia (lavoro minorile, madre assente, assenza della figura di un padre) questo aspetto è diventato ancora più marcato. Non giustificherò mai quello ci ha fatto in tutti questi anni, la violenza non è mai giustificabile… […]. Sono arrivata alla conclusione che lui ci trattasse così perché a sua volta è insicuro di sé stesso e ha una voragine dentro che colma vedendo l’altro soffrire. Quante volte mi è stato ordinato di non piangere perché piangere non serve a niente… […]. Ho maturato vergogna, sì, perché vedevo gli altri vivere una vita diversa dalla mia, avevano una famiglia in cui non succedevano queste cose e lo capivo bene nonostante la tenera età. Potevano incontrarsi tra di loro il pomeriggio per fare merenda insieme, potevano vestirsi come volevano, andavano a trovare i parenti a loro piacimento, partecipavano a cene di famiglia senza paura che il tavolo apparecchiato finisse scaraventato per terra a causa di un litigio. Per anni le cose in casa mia sono state distrutte, buttate per terra, dai piatti al tavolo di vetro, tutto perché lui non “sopportava” determinate parole o espressioni. Anni in cui ho soffocato le lacrime, a scuola, con i parenti abbastanza ignari degli accadimenti più violenti, con i vicini che sapevano benissimo eppure facevano finta di nulla. C’è tanta omertà in queste storie, persone che preferiscono fare finta di niente. […]. Il mio percorso scolastico è stato abbastanza travagliato: passare al periodo adolescenziale vivendo una situazione del genere si è ripercosso sul mio andamento scolastico, soprattutto nel periodo delle scuole medie. Fortunatamente non mi è stato impedito di studiare ma sono caduta tante volte e altrettante volte mi sono rialzata da sola nonostante i “non sei buona a nulla”, mi sono detta chiaramente che sarebbe stato grazie allo studio e alla voglia di fare che avrei potuto un giorno raggiungere i miei obiettivi: che avrei fatto altrimenti? Non oso pensare cosa ne sarebbe stato della mia vita se non avessi avuto questa determinazione di andare avanti prima con il liceo e poi con l’università. La cultura ti salva e ti dona senza nulla in cambio un potere che definirei magico: l’obiettività. Avere un orizzonte vasto che ti permette di guardare ad ampio respiro con imparzialità gli avvenimenti che ti coinvolgono ti permette da estraneo di guardare agli stessi e intraprendere la via di uscita. È solo con una visione obiettiva che ci si rende conto davvero della situazione perché, purtroppo, quando (nel mio caso) si nasce in una situazione del genere si è troppo coinvolti nella vicenda e la maledetta abitudine ha la meglio sulla volontà di riconoscerne la gravità e sul prendere la decisione di dare un taglio a quella situazione e darsi una possibilità. Mia madre, invece, è caduta in una trappola infernale e per lei uscirne sarebbe quasi un miraggio. Parlo al condizionale perché solo io purtroppo mi sono allontanata da questa persona: io ce l’ho fatta, anche se non è facile distaccarsi dal nucleo familiare. Non è facile una scelta del genere, ad un certo punto, però, diventa inevitabile per salvaguardare la propria dignità e incolumità […]. Ne ho viste di tutti i tipi, da un semplice pugno in faccia a mia madre che le ha causato un intervento con i punti al pronto soccorso, testa sbattuta sul portone di legno che addirittura si è fratturato nello stesso punto del colpo per l’intensità, calci e pugni sul corpo con le mani e con gli oggetti (dalla cintura al manico del coltello affilato, spintoni anche per strada, lividi, lividi, lividi) […]. Ma un giorno, sfinita da quanto mi toccava assistere, mi sono guardata “dentro”, ma seriamente, e ho iniziato a pormi una serie di domande sul futuro che avrei avuto continuando a vivere quella situazione. Tra tutte le domande possibili, a partire da “ma posso veramente fidarmi di una persona che pur essendo mio padre ci minaccia di morte?”, arrivando alla domanda più importante “ma questa persona potrà mai cambiare un giorno? Questa persona cambierà mai se noi continuiamo a dare adito ai suoi sfoghi e ad acconsentirgli ogni richiesta?”, no. Questa persona non cambierà mai a meno che non si faccia a sua volta “aiutare”… Queste domande mi hanno aiutata a capire chi sono e chi voglio essere[…]. E in tutto questo sembra che io non mi sia mai ribellata negli anni a questa situazione drammatica e invece non è così perché il mio disprezzo nei suoi confronti è sempre stato evidente nonostante ci siano stati momenti in cui mi sembrava di vivere una vita familiare “normale” e lui stesso si comportava come una persona dolce e premurosa. È sempre stato un dualismo: ad una carezza corrispondeva poi una percossa, e una volontà di annullarti con offese, sminuimenti volti a raffigurarti come persona insignificante che non serve a niente in questa vita […]. Vorrei poter incorniciare la frase “rincominciare è possibile” e lo è davvero, io credo di esserne la testimonianza, contrariamente a mia madre che ancora non si è liberata di questa situazione… […]. È meglio provare a distaccarsi da una persona malevola, è meglio buttarsi in vie sconosciute, anziché condurre un’esistenza “vuota” perché non sei mai chi vorresti essere, visto che indossi una maschera con tutti cercando di fare finta che quello che stai vivendo non sia grave e di nasconderlo per vergogna agli occhi della società […]. Adesso mi sento finalmente libera ma non perché io debba fare chissà che cosa, libera semplicemente di respirare e di non aver paura che qualcuno possa farmi del male da un momento all’altro senza motivo[…]. Libera di auto delineare la mia figura di donna e di smettere di essere insicura… […]. Attualmente sto proseguendo con l’università, i miei parenti mi sono accanto nel mio percorso, e sono determinata a raggiungere i miei obiettivi. Ringrazio le operatrici del centro antiviolenza per il loro sostegno”.
Le parole di Federica ci fanno entrare un po’ nella realtà nella quale ella si trovava; tra sofferenza e lotta, ha avuto il coraggio di vivere anziché sopravvivere.
Quando si parla di violenza sulle donne, però, viene trascurato sempre un aspetto integrante a ciò che è accaduto. Bisogna chiedersi anche: “e a quell’uomo cosa accadrà? Troverà il modo di soffocare quel mostro che si è creato dentro di lui?”.
È importante capire che anche l’uomo, che ha inflitto violenza fisica e psicologica alla donna, ha bisogno di sostegno. Non un sostegno legale bensì un sostegno psicologico che faccia sì che egli non rimanga da solo con se stesso. Il mostro che è dentro di lui deve essere soffocato, solo così quando avrà una donna di fronte a sé si relazionerà con lei con rispetto.
Seguire questi uomini in un percorso morale e umano è fondamentale per far sì che questi individui non vengano emarginati dalla società poiché tale emarginazione porterebbe ad un miglioramento apparente ma non andrebbe a sradicare il reale problema di fondo.
La mente dell’essere umano è qualcosa di complesso, per questo motivo bisogna capire cosa si scatena all’interno di essa quando fa trasformare le persone in qualcosa che la società teme. Solo sradicando il mostro, facendo riaffiorare l’essere umano, i cambiamenti, non solo per le donne ma per tutti, potranno realmente definirsi utili e da fondamento per una società sana e libera.
Accettiamo sempre la realtà per come si mostra, non pensando mai che essa possa essere diversa da com’è. Bisogna reagire e provare a cambiare la propria vita.
La vita è come un pezzo di creta: può essere modellata, ma se prima non si comprende che è possibile che essa si tramuti in qualcosa diverso da sé, allora resterà sempre un pezzo deforme. Prendendo coscienza di come le mani possano muoversi su di essa si trasformerà in ciò che è più adatto a noi.
Guardiamo più attentamente questo mondo, e ascoltiamo di più quei segnali muti intorno a noi, poiché, nel frattempo che tu stai leggendo questo articolo, accanto a te potrebbe esserci una donna che vorrebbe solo “andare lontano”.
articolo a cura di Diletta Turrini