Per i giudici di primo grado quei tre imprenditori erano colpevoli di bancarotta fraudolenta, ma per le toghe di Appello la sentenza di condanna va annullata.
La Corte di Appello di Milano ha accolto la tesi procedurale dei difensori dei cassinati, gli avvocati Renato Borzone del Foro di Roma, Antonio D’Alessandro e Marco Vento, entrambi del Foro di Cassino.
In primo grado gli imputati erano stati ritenuti responsabili del reato ascritto agli stessi “ritenendo il loro concorso personale nella causazione della bancarotta condannandoli rispettivamente alla pena di 4 anni e 6 mesi, 4 anni e 3 anni e 6 mesi”. Il collegio difensivo aveva eccepito quella sentenza e lo aveva fatto evidenziando gli errori procedurali e di merito della decisione.
Gli avvocati Borzone, D’Alessandro e Vento hanno eccepito innanzitutto la motivazione assoluta, cioè i “perché” si fosse giunti a condanna.
Quindi la nullità della sentenza per difetto di motivazione assoluta sull’elemento psicologico del reato, sulla pena e sulle statuizioni civili.
Spieghiamo: il Tribunale in primo grado aveva condannato gli imputati anche al pagamento di una ingente provvisionale a favore della Curatela del Fallimento, costituita parte civile. Si era creata però una circostanza che aveva reso quel caso giudiziario molto particolare: dalle motivazioni, che in procedura sono obbligatorie da parte dei giudicanti, mancavano due pagine delle 17 presentate.
Per la precisione le numero 15 e 16. Mancavano quindi i requisiti minimi richiesti dal nuovo articolo 546 Cpp. lettera E. Ovvero, la sentenza non era motivata appieno, perché difettava dell’indicazione della concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata.
Il tutto in carenza della “indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati all’accertamento dei fatti e quanto ne conseguiva”.
Lo spiega bene l’articolo 125 del Codice di Procedura penale: le sentenze devono essere motivate a pena di nullità.
Ha “funzionato” anche un rilievo di merito: quello per cui i tre imprenditori avevano “ceduto le loro partecipazioni sociali con estraneità alla condotta fraudolenta addebitabile unicamente alla nuova compagine societaria”.
In buona sostanza il reato si sarebbe consumato dopo che la sua responsabilità era imputabile in capo agli indagati.
Per questo motivo la Corte di Appello ha annullato la sentenza di condanna a carico dei tre imprenditori cassinati stabilendo che debba tenersi un nuovo processo di primo grado.
articolo a cura di Monia Lauroni