di Filippo Del Monte
L’istituzione da parte del governo di una Zona economica speciale (Zes) unica nel Mezzogiorno, a partire dal prossimo 1 gennaio, che unisca le precedenti otto strutture amministrative precedenti di Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia, Sardegna e che sostituisce le attuali Zone economiche speciali frammentate in otto diverse strutture amministrative, ha aperto un’ampia discussione sia tra i politici che nel mondo economico italiano.
Istituire in un territorio meno sviluppato o che stia vivendo una fase di transizione economico-industriale una Zes, significa puntare allo sviluppo delle imprese operanti su quel territorio, favorire l’insediamento di nuove imprese, attraverso l’utilizzo di agevolazioni fiscali e sburocratizzazione delle procedure. L’obiettivo strategico che spinge ad istituire una zona economica speciale in un territorio svantaggiato è quello di creare condizioni più favorevoli in termini economici, finanziari ed amministrativi che possano andare ad incidere su quel sistema territoriale.
Ora, nell’attuale scenario di frammentazione geoeconomica ed estrema competitività politico-strategica tra gli Stati, massimizzare le capacità produttive di tutto il “Sistema Paese” diventa fondamentale per l’Italia, che si trova proprio al centro di una delle principali aree contese o “linee di faglia” dello scenario geopolitico: il Mediterraneo.
La Presidenza del Consiglio dei ministri ha spiegato che la costituzione di un’unica Zes consentirà di massimizzare nello scenario internazionale l’impatto competitivo dell’intero Mezzogiorno con il suo già rilevante apparato produttivo, che rappresenta un potenziale da valorizzare nelle sue molteplici articolazioni settoriali e territoriali, con riconoscimento di eguali chance di sviluppo a tutti i territori dell’Italia meridionale e a tutte le imprese già insediate nel Sud, o che in esso volessero insediarsi.
Sul territorio della Provincia di Frosinone, l’istituzione di una Zes unica che arrivi fino alla Provincia di Caserta, dunque che arrivi a lambire il territorio ciociaro, senza, però, apportarvi benefici, ha scatenato una serie di reazioni sotto certi aspetti contrastanti. Da un lato c’è chi sostiene che l’impatto “negativo” della Zes sul sistema economico-produttivo delle province di Frosinone e Latina debba essere calmierato con interventi propri delle “zone di confine”; dall’altro chi ha proposto l’estensione anche a Ciociaria e pianura pontina della Zes del Sud; altri ancora hanno riproposto l’utilizzo degli strumenti che già furono della Cassa del Mezzogiorno.
Tutte strade difficilmente percorribili, per quanto animate da nobili intenti, anche perché storicamente – dai tempi dell’industrializzazione “nascente” alla metà dell’800 fino al boom economico del secondo dopoguerra – il Lazio meridionale ha avuto un processo di sviluppo differente rispetto a quello del Mezzogiorno e difficilmente assimilabile. Anzi, Frosinone e Latina, se oggi sono “schiacciate” dal peso di Roma, nella Zes lo sarebbero da quello di aree potenzialmente più appetibili per gli investimenti e più legate alla strategicità delle “catene del valore”. Un ampiamento “posticcio” dei confini della Zes al Lazio meridionale potrebbe spingere poi altri a chiedere ulteriori estensioni di quella che è, invece, una frontiera geograficamente ben definita e che serve a delimitare una specifica zona che necessita di interventi specifici.
L’economista Giulio Sapelli ha dichiarato che il vero obiettivo del “Piano Mattei” lanciato dal governo Meloni per il rinnovo dei rapporti con l’Africa sia quello di “portare (finalmente) il capitalismo nel continente nero”. In un certo senso, similmente, la Zes unica punta a cambiare rotta nei piani di sviluppo del Mezzogiorno, abbandonando la politica dei sussidi, favorendo, invece, una politica industriale attiva, davvero agganciata ai sistemi economici europei e, sempre in ottica di “globalizzazione competitiva”, mondiali. La richiesta di attivare la della piattaforma Siisl e le politiche attive arrivata al governo da parte dei giovani di Confindustria nell’ultimo convegno di Capri va proprio in questa direzione.
La frenesia scatenata nel milieu politico-associativo di Frosinone e Latina dalla Zes unica si spiega solo con la giusta intuizione – che ha, però, portato a conclusioni frettolose e “fuori fuoco” – dei vantaggi che la Zes porta con sé. Anche perché, se gli sgravi fiscali e la semplificazione delle procedure possono rappresentare una boccata d’ossigeno per le aree svantaggiate, queste misure possono essere la reale chiave di volta per quei territori che – pur avendo sofferto come il resto del Paese la crisi industriale – hanno ancora un sistema produttivo radicato e capaci di proiettare la propria dimensione in campo internazionale (l’area industriale di Anagni viene subito in mente).
Dunque, quella legata alla Zes non dovrebbe diventare l’ennesima battaglia “campanilistica” o animata da “vittimismo” provinciale, ma una proposta valida per l’intero Paese. In questo viene d’aiuto l’esempio di un Paese membro della Ue, oggi esposto alle temperie dello scontro con la Russia ma con una economia in costante crescita: la Polonia. Con una legge del 1994, Varsavia ha istituito 14 Zes sul suo territorio nazionale, con l’obiettivo di favorire la nascita di un sistema economico nazionale di stampo capitalista ed attrarre gli investimenti esteri.
Il successo delle Zes locali ha spinto il governo polacco ad estendere i benefici delle “zone franche” a tutto il territorio nazionale, superando il modello settoriale e facendo della Polonia un’unica “Zes unica” dove le imprese sono favorite e sostenute sotto il profilo burocratico e fiscale. Le vecchie Zes locali polacche puntavano a far installare sui territori di pertinenza specifici comparti di attività economica, con particolare attenzione alle nuove tecnologie, per generare le capacità d’esportazione nazionali e rafforzare l’occupazione.
Tutto sommato, l’idea non si discostava troppo da quelli che in Italia sono conosciuti come “distretti industriali”, con la differenza che in Polonia queste industrie sono nate da zero, su impulso della defiscalizzazione e del taglio netto delle procedure burocratiche, e non provenivano da tradizioni consolidate, a volte anche rivelatesi inefficienti sul lungo periodo.
Del modello polacco hanno approfittato anche imprese italiane inserite appieno entro le catene del valore, posizionate sulla frontiera tecnologica, e capaci di generare occupazione e benefici sia nel Paese d’origine che in quello d’insediamento. La Zes favorisce, infatti, non l’estensione dei sistemi industriali nazionali all’estero e non le delocalizzazioni, che sono, invece, frutto di eccessive pressione fiscale e burocratizzazione.
L’intervento pubblico in economia – che è sempre stato il faro delle politiche economiche sviluppiste in Italia – viene con la Zes circoscritto entro i precisi limiti della funzione regolatrice dello Stato sulle questioni d’utilità sociale, senza travalicare la sfera privata degli interessi né favorire l’espansione a dismisura degli apparati pubblici. In un certo senso, è una riproposizione del pensiero economico di Francesco Saverio Nitti.
La discussione sulla Zes unica è, dunque, posizionata “fuori fuoco”, risponde a interpretazioni e necessità di breve periodo e non guarda, invece, allo strategico rilancio industriale dell’Italia, un sistema incentrato sulla manifattura e la trasformazione di materie prime importate, che necessita, per forza di cose, di un superamento delle Zes settoriali in favore di una vera “Zes unica”, quella estesa a tutto il territorio nazionale.