di Silvia Scarselletta
Tutti sappiamo che l’8 marzo è una ricorrenza internazionale finalizzata ad accrescere la consapevolezza sulle disparità e discriminazioni di genere, e che dal 1975 (grazie al riconoscimento da parte delle Nazioni Unite) questa giornata fa ufficialmente parte dei giorni rossi del calendario morale.
Alcune donne andranno a festeggiare, facendo un qualcosa di diverso rispetto al solito – magari una semplice cena o una serata insolita con le amiche – gli uomini, invece, avranno un riguardo in più: un fiore, un complimento, un regalo.
L’8 marzo il mondo si mobilita.
Un poeta, in un cantuccio, butta giù due righe di riflessione; un cantante intona un verso in onore della donna gentile; un negoziante regala una promozione; un bar inventa un nuovo cocktail dedicato; un ristorante organizza un menù su carta gialla; un innamorato compra la mimosa per la sua fidanzata: tutto il mondo si muove, l’8 marzo. Si muove in nome di un ricordo, si muove in nome di un sacrificio, si muove in onore della storia, delle regole, dell’evenienza.
L’8 marzo non ci si può lamentare, in effetti: scriviamo “Donna” con la D maiuscola. La valorizziamo, la elogiamo, la rispettiamo. Se ha ricevuto una percossa il giorno prima, sicuramente la mattina dell’8 marzo si sveglierà con un bel mazzo di fiori. Se è stata vittima di cat-calling tornando a casa, la mattina dell’8 marzo dalla maggior parte delle persone riceverà sorrisi benevoli e comprensivi, come per dire: “oggi tregua”.
Non dovrebbe essere così, però. L’8 marzo, generalmente, non dovrebbe essere una festa, dovrebbe essere una riflessione. Tutti noi, uomini e donne, dovremmo fermarci un secondo, riflettere e chiederci: Perché, nel 2024, bisogna ancora lottare per qualcosa che dovrebbe essere naturale e ovvio? “Perché è così che va il mondo”, ci dicono. “C’è il sesso forte e c’è il sesso debole. Sesso forte vince su sesso debole.”
È ovvio. “Ci vuole tempo”, è ovvio. “Lo dovete accettare”, è ovvio.
In Italia la prima Giornata internazionale della donna si è celebrata nel 1922, eppure cento anni non sembrano bastare, ce ne vogliono almeno altri cento. E poi cento. E poi cento.
Ma per queste cose ci vuole tempo, è ovvio.
Alcune donne, però, l’8 marzo non vanno a festeggiare, preferiscono protestare. Scendono in piazza, scioperano, urlano, fanno rumore. Un rumore che per troppo tempo è stato silenzioso, un silenzio che dentro le mura di casa di alcune, o nell’ambiente lavorativo, diveniva sempre più assordante e infernale.
Non una di meno, non una di più, ci dicono. Eppure ogni giorno ne contiamo una di meno, o una in più a cui rubano i mille sogni nel cassetto che con più fatica degli altri si dovrà conquistare. Sono anni che ripetiamo queste parole e ogni giorno che passa finiamo per sperare, sempre più fortemente, che prima o poi tutta questa disuguaglianza diventi solo un brutto ricordo; non rimane che continuare a scendere in campo e a mantenere i diritti che le nostre ave hanno pagato con la pelle, perché forse si riuscirà a ottenere veramente una parità di genere, quando si smetterà di accettare che ci vuole del tempo anche per ottenere quello che di diritto e per natura ci spetta.