di Eleonora Sacco
In occasione del centenario dalla nascita, Palazzo delle Esposizioni celebra l’attività di Carla Accardi (Trapani, 1924 – Roma, 2014) con la più grande mostra antologica mai dedicatale. Grazie alla collaborazione e il sostegno dell’Archivio Accardi Sanfilippo e della Fondazione Silvano Toti, circa cento opere dislocate fra numerose istituzioni ed enti privati in tutto il mondoarrivano nella Capitale e abitano gli spazi del Palaexpo attraverso una sapiente ricostruzione storica e cronologica.
Siciliana di nascita ma romana d’adozione, Accardi ha fatto della sua fittissima rete di contatti una legacy, della sua casa-studio in via del Babuino un luogo di incontro e scambio per tutti i giovani artisti dell’epoca.
Questo è il punto di partenza della sala 1, dove viene realizzato un “muro biografico” con materiali d’archivio e le prime produzioni degli anni ‘40 e ‘50. Ad accoglierci sull’uscio di casa c’è il celebre Autoritratto (1946) ad olio che più di un Raffaello, ricorda una Gioconda del ventesimo secolo pronta a seguire con aria di sfida ogni suo ospite.
Se la mostra fosse un libro la sala 1 sarebbe la prefazione, se fosse una saga cinematografica, sarebbe il prequel. Lettere, fotografie d’epoca, pubblicazioni, produzioni non solo di Accardi ma anche di altri che gravitavano attorno alla sua cerchia, rendono ben chiara la scelta curatoriale di non inserire testi in nessun’altra stanza della mostra. Il legame con il gruppo Forma 1 e Rivolta Femminile, i rimandi a Guttuso e Severini, il grande momento di crisi attraversato nei primi anni ‘50 che trasforma i ritmi vorticosi di colore e forme – Fondo verde (1953) – in segni definiti da forti contrasti di bianco e nero – Grande grigio bruno (1954) –.
È tutto racchiuso sapientemente in pochi metri quadri.
La scelta curatoriale di ordinare cronologicamente le opere vuole porre l’accento sulla profonda coerenza di Carla Accardi, che in quasi settanta anni di lavoro è riuscita a catalizzare con estrema lucidità tutti i cambiamenti che hanno determinato non solo la sua storia personale ma anche quella collettiva del Paese. Le tinte fluorescenti e le tele di grande formato, unite alle prime sperimentazioni con il Sicofoil che da totem colorati – Rotoli (1965-69) – arrivano a materializzarsi nello spazio, fanno della sala dedicata alla produzione degli anni ‘60 un saggio visivo sul boom economico, l’impatto della Pop Art e l’astrattismo americano. Non solo joie de vivre, questi sono anche gli anni in cui Accardi sta iniziando ad aprirsi a quell’inconscio femminile che con troppa razionalità aveva negato a lungo. Tenda (1965-1966) nasce da profonde riflessioni fatte con Carla Lonzi sul concetto di luogo nomade e leggero, un processo di liberazione rispetto al modello di casa tradizionale al quale la donna è stata a lungo sottomessa. Stella polare di tutto il percorso espositivo è la Triplice tenda (1969-71) che campeggia imponente e fragilissima nello spazio della rotonda centrale del museo.
Un lungo corridoio in cui viene allestita Origine (1976) funziona come disimpegno per la sala dedicata agli anni ‘70.
Unicum nell’opera di Accardi, l’installazione vede l’utilizzo del Sicofoil unito a fotografie tratte da un album di famiglia, attraverso il quale la presa di coscienza – che porterà alla rottura con Carla Lonzi di lì a poco – si concretizza nello spazio.
La realizzazione della mostra si muove nel più profondo rispetto da parte delle curatrici – Daniela Lancioni e Paola Bonani – nei confronti dell’operato di Accardi, in questo si riflette la meticolosa ricostruzione degli allestimenti storici.
La sala 6 è dedicata ai lavori realizzati negli anni ‘80 – Grande dittico (1986), Animale immaginario (1987) e Grande capriccio (1988) solo per nominarne alcuni – in una grande installazione che riproduce la sala personale allestita dall’artista alla Biennale di Venezia del 1988, fedele fin dove l’architettura del Palazzo delle Esposizioni lo ha potuto permettere.
“La figurazione è la cosa più importante del nostro passato. Ma noi pensavamo, e lo penso ancor oggi, che non si può avere un’arte che ha come contenuto sempre l’uomo, la figura dell’uomo. L’arte può e deve essere come la musica, che ha in sé stessa delle doti e ti trasmette della spiritualità”, dice Accardi in conversazione con Paolo Vagheggi nel 2004. E l’uomo effettivamente non ci è mai riuscito ad entrare nelle sue opere, perché in un universo di segni nervosi, vibranti, scattanti, irrequieti, ma anche gioiosi, febbricitanti e luccicanti non avrebbe saputo come comportarsi.