di Silvia Scarselletta
Quando oggi si parla di cucina italiana lo si fa con orgoglio nazionale: non è solo una tradizione gastronomica, ma un patrimonio culturale vivo, soprattutto ora che ha ottenuto il primo sì dall’UNESCO per diventare patrimonio dell’Umanità – e, per l’appunto, sarebbe la prima a ricevere questo riconoscimento.
In Italia, si sa, mangiare bene è una certezza: che si tratti di un pranzo in casa o di una cena fuori, è difficile rimanere delusi; ma all’estero? Da anni ormai le strade di tutta Europa si riempiono di insegne come Ristorante Italiano o Pizzeria Italiana; eppure, quanto un italiano si fida davvero a entrarci?
Dietro queste insegne, in realtà, c’è molto più di quanto sembri: non solo lo scetticismo di chi è diffidente o l’entusiasmo di chi, finalmente, ritrova un po’ di casa, ma anche la storia di chi, dietro quell’insegna, nasconde dei sogni e una vita intera.

Riccardo Della Bella – creative chef, come lui ama definirsi, originario di Colleferro – viaggia da dieci anni e porta il suo bagaglio culturale in ogni parte del mondo: Londra, Valencia, Miami, le Canarie… le sue esperienze si definirebbero un equo baratto: tanto ha preso dall’Italia e tanto ha restituito al mondo, rendendo così ogni viaggio un metodo; ha unito la passione per il viaggio a quella per la cucina, ma non ha mai reciso il legame con la sua terra, e da qui è nato il suo frammento d’Italia sull’isola di Tenerife, una vera e propria “ricetta di vita”: per Riccardo, infatti, la ricetta perfetta per trasmettere qualcosa nasce mescolando radici, esplorazione e sperimentazione – un equilibrio armonico tra conservare e progredire, senza mai tradire la tradizione: un résumé perfetto.

C’è un filo rosso che lega il tutto: la nonna Natalina, sua maestra e colonna portante: è da lei che Riccardo ha imparato che il profumo del sugo la domenica mattina non è solo un odore, ma un linguaggio d’amore. Non un racconto nostalgico, il suo, ma vivo: quello di chi racconta la propria identità pur avendo ancora fame di nuovo.
Il distacco da quel nido è avvenuto presto: viaggi all’estero, continui cambi di scenario, nuove culture, nuove lingue, nuovi sapori, nuove gestioni; aperture, chiusure, ristoranti stellati: eppure la bussola è sempre rimasta puntata verso casa, verso le origini.
La ricerca di una “voce italiana” della tradizione, per lui, non significa bloccarla nel passato: al contrario, significa permettere a quel passato di parlare al presente e a persone diverse. Solo così l’ingrediente diventa racconto, il piatto diventa memoria e l’esperienza si trasforma in essenza: «portare la vera cucina italiana all’estero significa anche resistere ai compromessi e difendere la semplicità in un mondo che spesso confonde innovazione con spettacolo – afferma lo chef Riccardo Della Bella – scegliere materie prime autentiche e affrontare costi più alti e una logistica più complessa può disorientare, ma su questo sono inflessibile; a me piace valorizzare i prodotti del territorio in cui opero, ma prevalentemente utilizzo prodotti italiani. L’olio extravergine d’oliva, ad esempio, lo ricevo dalla mia regione, perché per me è l’anima di ogni piatto. L’olio è equilibrio, profumo, verità. Senza un buon olio, un piatto non parla. Ora mi sto muovendo per portare qui a Tenerife il Cesanese del Piglio DOCG. È un vino a cui tengo molto, un’eccellenza della mia terra che merita di essere conosciuta e apprezzata per quello che è davvero. Il Cesanese racconta un’Italia autentica, fatta di tradizione e di carattere: ogni sorso parla di colline, di lavoro e di passione; vorrei che chi sedesse alla mia tavola potesse scoprirlo e capire che l’Italia non è solo nei piatti, ma anche nei calici».








In un panorama gastronomico in cui la cucina spesso si è ridotta a spettacolo fine a se stesso, chef come Riccardo vanno apprezzati e compresi, poiché non propongono solo un piatto da ammirare, ma una storia da ascoltare: da dove viene, dove è stato creato e quale memoria porta con sé; non una cucina aliena, ma una cucina che ricorda casa, e in un tempo in cui l’eccesso tecnico rischia di creare muri tra chef e commensali, la loro scelta di umiltà, connessione con il territorio e rispetto della memoria diventa un respiro d’aria fresca.




