Quello aeronautico è un settore economico-industriale da sempre connotato da un mercato oligopolistico e da filiere produttive verticalizzate. Il motivo è presto detto: richiede conoscenze tecniche specifiche e grandi investimenti ed ha un legame molto stretto con gli interessi politici e tecnologici degli Stati.
Il potere aereo e spaziale è strumento di proiezione di potenza non solo in caso di guerra, ma anche di elevata competizione internazionale in ambito civile. La tecnologia aerospaziale è unità di misura nella competizione tra Stati e nei commerci.
Se sul campo di battaglia l’evoluzione del potere aereo si concretizza nella sempre più massiccia presenza di droni – anche intesi come parte integrante di “sistema di sistemi“, come anche la guerra tra Russia ed Ucraina oggi ed il progetto GCAP in prospettiva pongono all’attenzione – e dello sviluppo di una reale capacità ipersonica, in campo “civile” la vera sfida è legata allo sviluppo di nuove tipologie di aereo ed alla questione di lanciatori e reti di satelliti, nonché della commercializzazione (leggi anche politicizzazione e conseguente militarizzazione) dello spazio.
Si tratta, dunque, di un settore dove – superata l’epoca pionieristica del volo – a determinare le condizioni del mercato ed anche le evoluzioni e le trasformazioni tecnologiche sono sempre stati i grandi players industriali.
In sostanza, la lettera spedita dal Comitato dei Distretti Aerospaziali Italiani al ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, nei giorni scorsi parte proprio da queste basi per evidenziare alcune questioni centrali per il futuro del settore.
Al contrario di altri Paesi europei – Francia su tutti – l’Italia non ha previsto investimenti importanti nel settore aerospaziale con i fondi del PNRR, dirottando legittimamente ma forse con poca lungimiranza, le risorse su altre filiere produttive. Il rischio è che la manifattura – perché il settore è sì altamente competitivo ma si poggia, di fatto, sui pilastri dell’”artigianato industriale” più che della “catena di montaggio” strictu sensu – sia rimasto competitivo grazie agli investimenti del passato, ma che rischi in futuro, come denunciato dal Comitato dei Distretti Aerospaziali, di perdere competitività rispetto ad attori esteri.
L’aerospazio italiano ha una particolarità rispetto alle controparti estere determinante e che è in linea con il genoma dell’industria nazionale: il 75% della filiera è costituito da microimprese e piccole imprese, mentre il 12,8% è rappresentato da medie imprese e solo il 12% è costituito da grandi imprese, come evidenziato da Vera Viola su “Il Sole 24 Ore” (28/02/24). In un oligopolio, l’Italia presenta una filiera verticalizzata ma parcellizzata. È un vantaggio in termini di diffusione delle idee e delle innovazioni tipiche di un settore posizionato sulla “frontiera tecnologica”, ma al livello di mantenimento di competitività è un rischio sostanziale.
Si tratta di particolarità intrinseche allo sviluppo dell’industria aeronautica in Italia a partire dal primo Novecento; caratteristiche notate anche da Paolo Bricco nel suo libro “Leonardo. Motore industriale e frontiera tecnologica dell’Italia” (Il Mulino, 2023), dedicato al principale motore dell’industria aerospaziale nazionale, che, di fatto, ricostruisce le vicende storico-economiche del settore nel nostro Paese.
Le organizzazioni di categoria hanno, perciò, chiesto al governo di stilare un piano strategico nazionale per l’industria aerospaziale, che possa destinare risorse al settore, specialmente per quanto riguarda ricerca e sviluppo, nonché a costituire organismi di aggregazione per le realtà più piccole. Onde evitare di trasformare una delle punte di diamante del Paese in un settore di subfornitori dipendenti dalle richieste delle grandi imprese estere, occorre investire nella ricerca, sia nel campo supersonico che in quello ipersonico, anche ragionando in ottica dual use, e l’opportunità deve essere colta adesso, in una fase espansiva del mercato e delle possibilità – anche economiche – collegate perché dopo sarà troppo tardi.